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La tragedia degli anni di piombo

 

Nascono le Brigate rosse, tra cattolici e Pci

La prima vittima della lotta armata fu uno specchio da toilette. Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate rosse, racconta che a Reggio Emilia, nel 1967, un gruppo di giovanissimi anarchici sparò dalla finestra della loro sede contro l’avvocato Alberto Ferioli, dirigente nazionale del Pli, che si stava radendo nel bagno di casa sua, sull’altro lato della strada. Spararono con un fucile Flobert, mancarono il bersaglio e centrarono lo specchio. Arrestati, un paio di mesi dopo uscirono dal carcere minorile, furono espulsi dal movimento anarchico e accolti nella federazione giovanile del Pci (in rapporto conflittuale con il gruppo dirigente del partito), «un luogo molto accogliente» dice Franceschini «dove tutti i soggetti in qualche modo antagonisti potevano trovare un rifugio» (Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini, Che cosa sono le Br).

«Le Brigate rosse» continua l’ex brigatista «non sono nate dal nulla. Non sono un prodotto da laboratorio, magari di qualche Servizio segreto, ma il frutto di una cultura e di una tradizione politica della sinistra italiana. Quindi hanno radici nella storia di questo paese.» Mario Moretti, leader del gruppo terroristico durante il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, aggiunge: «C’era un grande movimento operaio, per niente integrato, e in esso c’era quel grande partito comunista. La storia delle Br è una storia in quella storia … Conoscevamo i compagni del Pci, come ne vivevano la linea, le illusioni che si facevano. E loro conoscevano noi. Ci conoscevano e non ci denunciavano, ci parlavano, parlavamo. Magari non erano d’accordo, ce ne dicevano di tutti i colori, ma erano compagni, non erano lo Stato e non lo sarebbero stati mai» (Carla Mosca e Rossana Rossanda, Brigate rosse. Una storia italiana).

Tuttavia, le Br hanno anche una solida matrice cattolica. All’inizio degli anni Sessanta la facoltà di sociologia della libera università di Trento, voluta dai dirigenti provinciali democristiani, fu la prima ad aprire le iscrizioni anche agli studenti provenienti dagli istituti tecnici in nome del superamento della discriminazione di classe e del rinnovamento radicale della formazione giovanile. Furono chiamati docenti famosi: tra gli altri, Sabino Acquaviva, Francesco Alberoni, Gian Enrico Rusconi, Norberto Bobbio, Franco Ferrarotti, Nino Andreatta e Romano Prodi. Secondo Bruno Kessler, a lungo presidente dc della provincia, parlamentare e, nel governo Cossiga del 1980, sottosegretario all’Interno, «di quel periodo rimangono, per un verso, un movimento sindacale tra i più avanzati d’Italia. Per un altro, un vivace fermento nel mondo cattolico. È proprio all’interno del mondo cattolico che, anche nella scia del Concilio, la deflagrazione degli anni Sessanta ha lasciato i segni più marcati, le lacerazioni più vistose. E non poteva non essere così in una terra come la nostra, dove anche il meglio di Lotta continua è cattolico».

A Trento si formarono Marco Boato, una delle icone di Lc, e Renato Curcio e Mara Cagol, fondatori delle Brigate rosse. Alla luce dell’impotenza iniziale dello Stato nei confronti del terrorismo brigatista, stupisce la precisione con la quale, già dalla fine del 1970, il prefetto di Milano Libero Mazza, in un rapporto di cui parleremo tra poco, aveva identificato Curcio e altri due prototerroristi (Corrado Simioni, impiegato della Mondadori, e Franco Troiano, impiegato della Siemens) come «principali esponenti [di un] movimento che ha recentemente annunziato la formazione di nuclei, denominati “Brigate rosse”, da inserire nelle fabbriche» (Vincenzo Tessandori, Br).

Tra gli intellettuali che ispirarono e consigliarono i fondatori delle Br, Franceschini inserisce Corrado Corghi, uno dei fondatori dell’Azione cattolica, segretario regionale della Dc nei primi anni Sessanta e, alla fine dello stesso decennio, ascoltato interlocutore di Berlinguer. Amico personale di Che Guevara e di Fidel Castro, critico da sinistra del Pci, Corghi – secondo Franceschini – avrebbe approvato l’idea della lotta armata se fosse stata «“leggibile” dalla gente come atto di giustizia».

Tra i comunisti reggiani, accanto a Franceschini si schierarono per la lotta armata alcuni giovani che in seguito sarebbero diventati elementi di spicco delle Brigate rosse: Prospero Gallinari, figlio – come Franceschini – di un partigiano, Roberto Ognibene e, più tardi, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. Nel biennio 1968-69 la frazione reggiana delle Br si propose come la continuazione del movimento partigiano. Racconta Franceschini: «Erano gli stessi ex partigiani che ci dicevano di andare a cercare le armi, perché volevano che le prendessimo noi … L’idea che avevamo, chiara e precisa, era che dovevamo costruire una struttura armata … [Gli ex partigiani] sapevano che le loro armi, noi le avremmo usate. Avevano fatto la guerra di Liberazione, dopo il 25 aprile avrebbero voluto continuare a combattere per costruire una società socialista, ma il Pci, il loro partito, li aveva traditi».

I protobrigatisti reggiani svuotarono dunque parecchi arsenali partigiani, i dirigenti locali del Pci cominciarono a nutrire sospetti e diedero qualche dritta ai carabinieri, che operarono più di un sequestro.

Nel 1969, subito dopo l’espulsione dal Pci, i fondatori del Manifesto girarono l’Italia per fare proseliti nella base comunista. Assai gustoso l’incontro di Luciana Castellina e Lucio Magri («eravamo a dicembre e lui era abbronzatissimo») con Franceschini e Gallinari. Quando questi ultimi dissero senza mezzi termini di essere favorevoli alla lotta armata, Magri uscì dall’imbarazzo esclamando: «Ma allora, se voi volete fare veramente queste cose, io me ne torno a sciare!».

Franceschini e Gallinari facevano sul serio: «Selezionammo 20-30 compagni, i più determinati, gli stessi che più tardi avrebbero formato il nucleo più agguerrito delle prime Brigate rosse. E cominciammo a esercitarci andando a sparare sulle montagne con i mitra che ci davano gli ex partigiani … Tiro con la pistola e con i mitra. E poi imparammo anche a costruire bombe molotov». Come ricorda Franceschini, Lucio Libertini, senatore del Psiup e poi del Pci, pubblicò sulla prima pagina della rivista «La sinistra», edita da Feltrinelli, un articolo che spiegava come fabbricare una bomba molotov.

 

«Giangi» Feltrinelli, dall’editoria al terrorismo

Il Pci capì che il gruppo di Reggio Emilia sarebbe stato fonte di guai e propose ai suoi membri di trasferirsi in massa a Mosca. Ottenuto un rifiuto, espulse i capi, a cominciare da Franceschini e Gallinari, che trovarono un nuovo punto di aggregazione in Giangiacomo Feltrinelli.

Nato nel 1926, l’editore milanese era l’erede di una celebre e agiatissima famiglia. Suo nonno aveva fatto fortuna con il legname e suo padre era diventato uno degli uomini più facoltosi e potenti di Milano. (Accusato di traffico di valuta, dopo aver ricevuto l’ordine da Mussolini di dimettersi da ogni carica pubblica si suicidò.) Giangiacomo crebbe, tra lussi e inquietudini, con la gelida madre Giannalisa e un patrigno, Luigi Barzini jr, con il quale non legò mai. Montanelli, che non l’amava, ne parla come di uno spregiudicato padrone delle ferriere. Resta comunque il fatto che fu un editore geniale. Rese famosa la sua casa editrice pubblicando in esclusiva mondiale Il dottor Živago di Boris Pasternak (anche se, secondo Montanelli e Valerio Riva, che fu stretto collaboratore di Feltrinelli, fece di tutto per non pagare i diritti d’autore) e consolidò la sua fortuna editoriale – oggi conservata e accresciuta dalla moglie Inge e dal figlio Carlo – con Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa e altri best seller.

Troppo giovane per aver fatto la Resistenza e troppo vecchio per fare la rivoluzione, come si disse allora, Feltrinelli fu il collante tra le diverse anime delle Br, quella cattolica di Curcio e quella comunista di Franceschini. Fin dal 1968 aveva maturato la convinzione che in Italia sarebbe avvenuto un colpo di Stato, sicché nel luglio 1969 diffuse un documento, Estate ’69, che segnò il suo passaggio alla lotta armata con la rifondazione dei Gap, i Gruppi d’azione patriottica che erano stati sciolti nell’immediato dopoguerra. «È possibile» scriveva Feltrinelli «che il colpo di Stato, organizzato dalla Cia americana, dalla Nato, dalle grandi industrie, dai militari e dalle forze internazionali trovi attuazione nel corso di questa estate, facilitato dall’esodo estivo, dal generale disinteresse, dall’impreparazione delle tradizionali organizzazioni operaie (Pci e sindacati).»

Entrato in clandestinità dopo la strage di piazza Fontana, si era dato il nome di battaglia «Osvaldo». Secondo Franceschini, Feltrinelli, che era stato iscritto per alcuni anni al Pci, aveva mantenuto uno strettissimo rapporto con Pietro Secchia: il vecchio rivoluzionario guardava con estrema simpatia ai giovani che si erano impegnati a proseguire la lotta partigiana. (Lo stesso Franceschini sostiene che perfino Riccardo Lombardi si era rassegnato alla necessità della lotta armata come unico antidoto all’imminente svolta golpista che si stava prefigurando in Italia.) Feltrinelli, che si riteneva tradito dal Pci e finanziava alcuni gruppi dell’estrema sinistra, da Potere operaio a Lotta continua al Manifesto, aveva rapporti costanti con i regimi cubano e cecoslovacco, si recava regolarmente a Praga, tanto che Franceschini non esclude che, attraverso di lui, i servizi segreti cechi controllassero l’attività delle nascenti Brigate rosse. L’editore incontrava clandestinamente i brigatisti ogni mercoledì, alla stessa ora, nei giardini del Castello Sforzesco di Milano. Secondo quanto afferma il suo biografo Aldo Grandi, Giangiacomo ebbe un ruolo determinante, il 1° aprile 1971, nell’assassinio di Roberto Quintanilla Pereira, console generale boliviano ad Amburgo coinvolto nella morte di Che Guevara. Il console fu ucciso con una pistola da Monica Ertl, una giovane tedesca che si era incontrata poco prima con l’editore italiano, al quale risultò appartenere l’arma del delitto.

Giangiacomo morì il 15 marzo 1972 dilaniato dalla carica di esplosivo che stava installando su un traliccio dell’alta tensione nei pressi di Segrate, alle porte di Milano. I suoi complici testimoniarono che, come «battesimo del fuoco», volle attivare personalmente i timer di orologi esplosivi. Commise un errore e saltò in aria mentre era aggrappato al traliccio. Il commissario Luigi Calabresi, che sarebbe stato assassinato due mesi dopo, fu il primo a identificare il cadavere: «Mettete dei baffi a quella foto e vedrete Feltrinelli». La sinistra – ma anche la stragrande maggioranza della stampa e dei giornalisti televisivi – ritenne che fosse stato assassinato. Si dovette aspettare il 1979 perché, in un’aula di tribunale, Renato Curcio rivendicasse l’attività rivoluzionaria di Feltrinelli e ne spiegasse la morte: provocare un blackout in molti quartieri di Milano avrebbe favorito l’azione terroristica dei militanti del movimento rivoluzionario.

L’editore era rientrato precipitosamente in Italia per compiere l’attentato di Segrate, visto il successo della prima impresa delle Brigate rosse. Il 3 marzo 1972 Curcio, Franceschini e Moretti, che nel frattempo si era unito al gruppo, avevano sequestrato e rilasciato di lì a poche ore Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens. Le foto di quest’ultimo dinanzi a una bandiera con la stella a cinque punte e con una pistola puntata al viso suscitarono nel paese grande scalpore. Poco dopo fallì il sequestro del dirigente democristiano milanese Massimo De Carolis, anima del movimento moderato Maggioranza silenziosa, di cui parleremo più avanti: alcuni brigatisti furono catturati e da allora Franceschini cominciò a sospettare che Moretti potesse essere un infiltrato dei servizi. All’inizio del 1973 i brigatisti sequestrarono Bruno Labate, sindacalista Cisnal alla Fiat, e alla fine dello stesso anno Ettore Amerio, capo del personale dell’azienda torinese. Eppure, l’«Unità» continuò a parlare per anni di «sedicenti Brigate rosse», nella convinzione – peraltro assai diffusa – che tutte queste operazioni fossero compiute dai protagonisti della «strage di Stato» (piazza Fontana) come tappe di una prolungata attività eversiva.

Alla fine degli anni Settanta Piero Fassino, allora dirigente della federazione torinese del Pci, disse a Giampaolo Pansa: «Si accettava con difficoltà l’idea che a sinistra vi potesse essere chi considerava il terrorismo uno strumento politico. La consapevolezza che esisteva invece un terrorismo rosso, che come un cancro si era insinuato nel corpo della sinistra e del movimento operaio, andò maturando e fu acquisita a partire dal 1975-76».

Secondo Franceschini, invece, già nel 1973 i vertici del Pci avevano scoperto che la lotta armata dei brigatisti era cominciata sul serio e cercarono di correre ai ripari. Mentre Giancarlo Pajetta incontrava il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel gennaio 1974 Alberto Malagugini – responsabile del partito per i problemi dello Stato (carica che faceva di lui il ministro dell’Interno «ombra», come sarebbe avvenuto ancor di più con il suo successore, Ugo Pecchioli) – invitava lo stesso Franceschini e altri brigatisti a costituirsi a un magistrato amico che avrebbe evitato loro il carcere, purché la lotta armata cessasse immediatamente.

Nel suo libro-intervista Franceschini offre questa versione dei fatti: nell’estate del 1973 il magistrato «amico», Ciro De Vincenzo, giudice istruttore presso il tribunale di Milano, aveva invitato Curcio e Franceschini, entrambi latitanti, a trascorrere con lui le vacanze in barca nell’Italia meridionale, per sapere «come erano andate le cose» nella morte di Feltrinelli. I due brigatisti non accettarono, e l’anno dopo Franceschini rifiutò l’offerta di Malagugini di consegnarsi a De Vincenzo («Avrei tradito Renato Curcio e sua moglie Mara Cagol»). Aderirono invece alcuni brigatisti della prima ora: la figlia di Malagugini, Silvia, suo marito Duccio Berio, figlio di un medico milanese e compagno di Curcio all’università di Trento, e altri. «Loro accettarono l’offerta,» racconta Franceschini «si consegnarono a De Vincenzo, sistemarono la loro partita e poi se ne andarono a Parigi con Simioni e gli altri, senza alcuna pendenza.»

Secondo il brigatista, il generale Dalla Chiesa – che condusse con successo le prime azioni contro le Br – avrebbe sospettato di De Vincenzo. Il magistrato, in effetti, fu messo sotto inchiesta dalla magistratura di Torino, ma il 26 marzo 1976 venne prosciolto in istruttoria. Analogo esito ebbe un procedimento disciplinare conclusosi il 10 marzo 1979 con «sentenza di non farsi luogo a dibattimento» emessa dal Consiglio superiore della magistratura. Il 10 dicembre dello stesso anno il giudice usciva dall’ordine giudiziario.

Mentre alcuni brigatisti «sistemavano la loro partita» consegnandosi a De Vincenzo, a Reggio Emilia i dirigenti locali della Cgil decidevano di non denunciare gli autori di alcuni «espropri proletari» (con cui i terroristi si autofinanziavano) in cambio della restituzione della tessera del sindacato: era loro interesse sancire che la Cgil e il Pci non avevano nulla da spartire con tali azioni. «Volevano tagliare tutti i rami che avrebbero potuto portare al Pci» dice Franceschini. «Io, Morlacchi e Paroli [due brigatisti che erano stati iscritti al Pci] avremmo sicuramente portato al Pci. E anche Berio e la Malagugini. In quello stesso periodo, tra l’altro, Salvatore Cacciapuoti, allora presidente della Commissione centrale di controllo del Pci, va a Praga, dai comunisti cecoslovacchi, e dice: sappiamo che voi proteggete i brigatisti, smettetela.»

 

Dal «rapporto Mazza» al «golpe Borghese»

È possibile che il governo non sapesse niente di tutto questo? No, il governo sapeva, ma sottovalutò il pericolo. Milano era sconvolta dai disordini già prima di piazza Fontana. Il 19 novembre 1969, durante una manifestazione dell’estrema sinistra, era rimasto ucciso un giovane agente di polizia, Antonio Annarumma. (Ai funerali, Mario Capanna rischiò il linciaggio e fu salvato da Luigi Calabresi.) Nel primo anniversario della strage alla Banca dell’agricoltura un candelotto lacrimogeno della Celere aveva ucciso lo studente di sinistra Saverio Saltarelli. Ogni settimana c’era uno scontro fra dimostranti e polizia.

Dinanzi a una situazione che si faceva incontrollabile, alla fine del 1970 il prefetto Libero Mazza inviò al ministro dell’Interno un rapporto durissimo, che analizzava lucidamente il presente e lasciava immaginare il futuro. Mazza riferiva che a Milano c’erano 20.000 giovani appartenenti a formazioni extraparlamentari d’ispirazione maoista, a movimenti anarchici e all’estrema destra. «Questi movimenti» scriveva «sono prettamente rivoluzionari, propugnano la lotta al sistema e si prefiggono di sovvertire le istituzioni democratiche attraverso la violenza organizzata.» Nacque così la teoria degli «opposti estremismi», cara a Paolo Emilio Taviani, ministro dell’Interno in sei governi. In realtà, quando nell’aprile 1971 il rapporto uscì dal cassetto del ministro, la destra lo difese, mentre la sinistra lo definì fazioso. Come osservano Baldoni e Provvisionato, il vero obiettivo di Mazza erano i cortei della sinistra extraparlamentare, accusati di disporre di «organizzazione, equipaggiamento ed armamento che può qualificarsi paramilitare: servizio medico, collegamento radio fra i vari gruppi, servizio intercettazioni delle comunicazioni radio della polizia, elmetti, barre di ferro, fionde per lancio di sfere di acciaio, tascapane con bottiglie Molotov, selci, mattoni, bastoni, ecc.».

Quando domando ad Andreotti perché il rapporto Mazza fosse stato sottovalutato dal governo, ricevo questa risposta: «Fu un grave errore da parte del ministero dell’Interno [di cui era allora titolare il democristiano Franco Restivo]. Forse la novità dell’analisi turbava la suscettibilità dei politici, quasi fosse un’invasione di campo. Io ne venni a conoscenza soltanto più tardi, quando montò la polemica. Mazza lasciò la carriera e per qualche tempo fu un rispettato parlamentare democristiano».

Il rapporto Mazza fu pubblicato un mese dopo la rivelazione – fatta dal quotidiano romano «Paese Sera», vicino al Pci – di un tentativo di golpe attuato nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 da un manipolo di uomini agli ordini di Junio Valerio Borghese, un eroe della seconda guerra mondiale. Con i piccoli mezzi subacquei – i cosiddetti «maiali» – di cui era dotata la sua X Mas, egli aveva condotto imprese leggendarie nei porti nemici, facendo saltare importanti unità della flotta britannica. Ammirato dagli stessi inglesi per la sua abilità e il suo straordinario coraggio, nel dopoguerra Borghese costituì una formazione di estrema destra, il Fronte nazionale, enfatizzando il pericolo comunista proprio come Feltrinelli aveva enfatizzato quello neofascista. E macchiò le sue medaglie con un golpe da operetta che, per quanto ridicolo, manteneva intatti i suoi propositi eversivi. Quella notte di dicembre un gruppo di ex paracadutisti guidati dal fascista Sandro Saccucci (membro dell’organizzazione Ordine nuovo di Pino Rauti e, in seguito, parlamentare del Msi) penetrò nel Viminale mentre una colonna di guardie forestali marciava lungo la Salaria dal quartier generale di Cittaducale, in provincia di Rieti, in direzione della sede della Rai in via Teulada, con il proposito, si disse, di lanciare un proclama. L’intera manovra abortì nel giro di poche ore.

Secondo Montanelli, Borghese non voleva sovvertire nulla ma limitarsi a un atto dimostrativo. Per Andreotti, «non è improbabile che la polizia sia stata avvertita da Almirante. Il Msi era estraneo a quell’impiccio, e i suoi parlamentari ormai si trovavano bene nel sistema democratico». Il senatore mi racconta di essere venuto a conoscenza dei retroscena del «golpe Borghese» nel 1974, quando tornò alla Difesa: «Il tentativo ci fu, ma non avrebbe potuto sortire alcun effetto perché le nostre forze armate non sono mai state golpiste. La colonna dei forestali fu fermata sulla Salaria, e il suo comandante disse che si trattava di una normale esercitazione. Quando c’era stata la precedente? Nel 1943… In ogni caso, un fucile proveniva dall’armeria del Viminale. Andò sotto processo Vito Miceli, capo dei servizi, che aveva rapporti di vecchia data con Borghese, ma non fu condannato».

L’episodio, tuttavia, fu inquietante ed ebbe pesanti contraccolpi. Il Pci, convinto che a piazza Fontana fosse stata consumata una «strage di Stato», trovò nell’affare Borghese nuovi elementi per rafforzare la propria tesi. Nella sua Storia del Pci Giorgio Galli ricorda un episodio illuminante. Nel gennaio 1971, con la scritta MAC MAHON BRIGATE ROSSE, le Br rivendicarono l’incendio di otto autotreni della Pirelli, a Lainate. Il 26 gennaio l’«Unità» scrisse: «Chi ha compiuto l’attentato, pur mascherandosi dietro anonimi volantini con fraseologia rivoluzionaria, agisce per conto di chi, come lo stesso Pirelli, è interessato a far apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, la responsabile lotta dei lavoratori per il rinnovo del contratto come una serie di atti teppistici».

Nei giornali e nelle redazioni della Rai il pericolo di una svolta autoritaria sembrava all’ordine del giorno. Ricordo che alcuni colleghi comunisti del telegiornale ci annunciarono la loro decisione di dormire fuori casa per evitare possibili arresti notturni. In questo clima, per scrivere «Brigate rosse» senza anteporre l’aggettivo «sedicenti», fino al 1974-75 furono necessarie autentiche battaglie, che da professionali diventavano, fatalmente, politiche.

A intorbidare le acque si aggiunse nell’estate del 1970 la rivolta di Reggio Calabria, animata dalla destra e dai «Boia chi molla» di Ciccio Franco, un sindacalista della Cisnal che entrava e usciva dal Msi. La nascita delle regioni a statuto ordinario rischiava di sacrificare due capoluoghi storici, Reggio Calabria e L’Aquila, città certo non ricche, che avevano negli impieghi pubblici una fonte determinante di sostentamento. A Reggio, dopo il trasferimento del capoluogo a Catanzaro, scoppiò una durissima rivolta popolare che costò tre morti e fece tremare il governo, prima che fosse trovata una soluzione all’italiana, con la distribuzione degli uffici nei principali capoluoghi di provincia. All’Aquila la rivolta divampò nel febbraio 1971: anche qui si parlò di caporioni fascisti, ma la destra c’entrava poco o nulla. Furono i notabili locali, in genere democristiani conservatori, a cavalcare con facilità il motivato malcontento popolare per il paventato trasloco del capoluogo a Pescara. Alla fine L’Aquila mantenne il titolo di capitale regionale, ma cedette a Pescara la sede di alcuni assessorati. Il capo della polizia, Angelo Vicari, scottato dall’esperienza di Reggio, usò nel reprimere la rivolta dell’Aquila una brutalità immotivata.

 

Leone al Quirinale con l’«aiutino» di Almirante

Nella Dc, intanto, il potere assoluto dei dorotei stava diminuendo: nel novembre 1969 Arnaldo Forlani, fanfaniano, aveva sostituito Flaminio Piccoli nel ruolo di segretario. Forlani era sostenuto da Ciriaco De Mita, in base a un accordo politico e generazionale (il «patto di San Ginesio», dal nome della località delle Marche dove fu stipulato) che mirava al rinnovamento del partito e a una maggiore attenzione verso il Pci. Nell’agosto 1970, dopo un nuovo e fragile governo guidato da Rumor e durato poco più di quattro mesi, il centrosinistra trovava in Emilio Colombo il suo nuovo leader a palazzo Chigi.

Mentre Berlinguer consolidava il suo ruolo nel Pci in attesa di diventarne segretario, a destra Giorgio Almirante riprendeva (questa volta con successo) il tentativo di influenzare il gioco politico. Diventato segretario del Msi nel giugno 1969, dopo la morte improvvisa di Michelini, Almirante seppe raccogliere consensi nel terreno altrui, arato dalla paura dei comunisti. A Milano, la città più coinvolta nelle manifestazioni dell’estrema sinistra, era nata all’inizio del 1971, come detto, la Maggioranza silenziosa, un movimento che si ispirava al qualunquismo di Guglielmo Giannini e raggruppava democristiani e socialdemocratici, conservatori, liberali, monarchici e missini. Guidata da due uomini di destra, Adamo Degli Occhi e Luciano Bonocore, coinvolti successivamente in procedimenti giudiziari contro l’estremismo nero, la Maggioranza silenziosa temeva l’avvento in Italia di un regime marxista. Almirante seppe utilizzarla per attrarre a sé una parte dell’elettorato moderato, scontento delle aperture a sinistra della Dc e, alla fine di quell’anno, svolse un ruolo determinante nell’elezione al Quirinale di Giovanni Leone.

Questa volta il candidato ufficiale della Dc era Fanfani, ma non ce la fece. Ecco il racconto di Andreotti, allora presidente dei deputati democristiani: «Andammo con Forlani, segretario del partito, a trovare Fanfani a Santa Marinella. “Stavolta” gli dissi “i voti del nostro gruppo li avrai tutti, anche perché non ci sei tu a organizzare i franchi tiratori. Ma sappi che i socialisti e i comunisti non ti voteranno mai.” Fanfani si piccò. “Tu occupati dei nostri” mi rispose. “Al resto ci penso io.” Il 9 dicembre cominciarono le votazioni. Al primo scrutinio, a Fanfani mancarono una quarantina di voti democristiani, che diventarono 55 al secondo. Mi misi al lavoro e, a metà dicembre, Fanfani ebbe 393 voti, il 94 per cento dei nostri gruppi parlamentari. Non si poteva fare di più. Ma, come avevo previsto, comunisti e socialisti non volevano saperne (me lo dissero espressamente), e anche gli altri alleati di governo votavano i loro candidati di bandiera. A un certo punto i socialisti manifestarono una certa disponibilità per Moro, che avrebbe ricevuto anche i voti dei comunisti. Repubblicani e socialdemocratici, però, misero il veto: va bene un democristiano, ma non voteremo mai né Moro né Fanfani. Taviani, che nutriva pure lui qualche aspirazione, disse che, se avessimo votato Moro, lui avrebbe trasformato la Dc ligure in un partito autonomo, come la Csu bavarese. Dopo molte discussioni (si avvicinavano le vacanze di Natale), decidemmo che i gruppi democristiani scegliessero un nuovo candidato in una terna composta da Leone, Rumor e Taviani. Alla fine di ogni scrutinio, i presidenti dei gruppi parlamentari bruciavano le schede. La sinistra interna insistette su Moro, ma quando si ritirarono Fanfani e Rumor, fu designato Leone, per il quale, oltre ai democristiani, si impegnarono i liberali, i socialdemocratici e i repubblicani. Il 23 dicembre gli mancò un voto, ma la mattina della vigilia di Natale fu eletto con 518 suffragi».

Qualche voto missino fu determinante, poiché anche Leone dovette scontare l’antipatia nei suoi confronti di alcuni franchi tiratori del suo partito. E Fanfani? «Era furioso» racconta Andreotti. «Si era illuso di ottenere i voti comunisti perché l’ambasciatore sovietico era andato a fargli gli auguri. Ma Paolo Bufalini, influente membro della direzione comunista e mio amico dalla prima giovinezza, mi aveva detto che quei voti Fanfani non li avrebbe avuti mai.»

 

Tra «fascismo in doppiopetto» e «compromesso storico»

Leone fu molto amato dalla stampa per almeno metà del suo mandato presidenziale. Era un uomo simpatico, con una bella moglie di vent’anni più giovane di lui e tre figli che riscattarono fin troppo vivacemente i saloni del Quirinale dalla plumbea atmosfera che vi regnava con Saragat. Le sue lezioni di procedura penale all’università di Roma (e alla radio) erano di una chiarezza esemplare, le sue arringhe in tribunale efficacissime, le sue capacità di mediazione apprezzate anche all’interno della Dc. L’uomo che tra il 1976 e il 1978 sarebbe stato oggetto di una delle più dure e infamanti campagne di stampa della Prima Repubblica, nei primi anni sembrava mandato dalla Provvidenza. Tutti i grandi giornali ne parlarono come di una «garanzia di equilibrio democratico». Sul piano personale, valga per tutti il ritratto che ne fece Oriana Fallaci: «Ora che ce l’avevo davanti, mi chiedevo perché mi piacesse. Il sorriso affettuoso, bonario? Gli occhietti teneri, maliziosi? L’assenza di ogni presunzione? Sì, forse era questo» («L’Europeo», 26 aprile 1973). Come talvolta accade, l’eccesso di consenso indusse i suoi più stretti collaboratori a eccessi di disinvolto autoritarismo. I rapporti di Leone con la direzione del telegiornale erano pessimi e mi toccò farne le spese (venni inviato al seguito del presidente al posto di un collega più gradito al Quirinale), ma questo mi permise di essere testimone della larghissima popolarità di cui godeva nei primi anni del suo mandato.

L’elezione del professore napoletano aveva contribuito a complicare i rapporti all’interno della Dc, e tra questa e i socialisti. Per la prima volta nella storia della Repubblica ci fu lo scioglimento anticipato delle Camere. I democristiani fecero sapere che avrebbero voluto gestire le elezioni con un proprio monocolore, che venne affidato ad Andreotti.

Democristiani e comunisti confermarono sostanzialmente i risultati ottenuti nella precedente tornata elettorale. Il Msi raggiunse il suo massimo storico: 8,7 per cento. Almirante portò nel suo gruppo in Parlamento Giovanni De Lorenzo, già deputato monarchico, e l’ammiraglio Gino Birindelli, che aveva appena lasciato il comando Nato per il Sud Europa. Era nato il «fascismo in doppiopetto». Andreotti, incontrando Almirante in televisione, parlò di «voti in libera uscita», ma la botta c’era stata. «Cercai di formare un governo aperto dai liberali ai socialisti» racconta Andreotti «ma socialisti e repubblicani dissero che non si sarebbero seduti allo stesso tavolo dei liberali.» Nacque così il governo Andreotti-Malagodi, aperto ai socialdemocratici. Il leader del Pli, che ebbe il Tesoro, si considerava così potente che mi ordinò di non accennare nei miei servizi sul congresso del suo partito alla minoranza interna che faceva capo a Renato Altissimo e Valerio Zanone. Naturalmente non obbedii, guadagnandomi due amici, e né il direttore del telegiornale Villy De Luca, né il direttore generale Ettore Bernabei, ai quali giunsero le proteste di Malagodi, mi tirarono le orecchie. Non lo fecero nemmeno quando mi rifiutai di intervistare il ministro degli Esteri Rumor ponendogli domande preconfezionate dal suo segretario (Rumor, mitissima persona, si profuse in scuse), né quando per la stessa ragione bisticciai con alcuni dirigenti socialisti e con il presidente della Corte costituzionale Paolo Rossi. In compenso, evitarono prudentemente di farmi seguire le vicende della Dc, fino alla riforma del 1976.

Tra la fine di giugno 1972 e la fine di novembre 1974, in meno di due anni e mezzo, l’Italia ebbe quattro governi. A quello centrista di Andreotti succedettero due governi di centrosinistra guidati da Rumor e poi il quarto gabinetto Moro, un monocolore. Fanfani, ripresosi dalla sconfitta nella sua eterna corsa al Quirinale, aveva sostituito Forlani alla segreteria del partito e si era impegnato generosamente nella disastrosa battaglia per abolire, attraverso un referendum popolare, la legge sul divorzio approvata nel 1970. Il 12 maggio 1974, al fronte cattolico, che si fermò al 41 per cento dei voti, mancarono 2,5 milioni di suffragi.

Il 1973 fu un anno nerissimo. La «guerra del Kippur» tra arabi e israeliani, vinta dai secondi, indusse i primi a rivalersi sui paesi occidentali quadruplicando il prezzo del petrolio, che fino a quel momento costava 3 dollari al barile (un diciottesimo del prezzo cui sarebbe arrivato trent’anni dopo). L’economia italiana fu messa in ginocchio, al punto che alla fine dell’anno fu proibita la circolazione domenicale delle auto. L’8 dicembre Paolo VI andò in carrozzella a onorare la statua della Madonna in piazza di Spagna. Il cavallo, eccitato per l’irripetibile circostanza, accelerò l’andatura, e noi che lo seguivamo con la telecamera dovemmo implorare: «Santità, per favore rallenti!». Fummo accontentati.

Il capo carismatico della Cgil, Luciano Lama, invocò un «nuovo modello di sviluppo» e gli imprenditori, impauriti, bloccarono le assunzioni. L’inflazione galoppava a due cifre: avrebbe ben presto raggiunto il 20 per cento, dissanguando le casse dello Stato per il pagamento degli interessi sul debito pubblico e illudendo il popolo dei Bot, soprattutto gli anziani, sulla possibilità di altissime rendite perpetue. Il rapporto tra il deficit di bilancio annuale e il prodotto interno lordo, che oggi, in base agli accordi di Maastricht, non deve superare il 3 per cento, schizzò oltre il 7. In poco tempo il debito globale dello Stato finì fuori controllo.

Enrico Berlinguer, eletto segretario del Pci nel marzo 1972, nel settembre dell’anno successivo rimase molto turbato dal golpe attuato in Cile dal generale Augusto Pinochet. Al pensiero che anche in Italia potesse verificarsi una svolta autoritaria, inviò subito tre articoli al settimanale comunista «Rinascita» (Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile) in cui invocava un «compromesso storico» tra cattolici e comunisti. «La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico» scriveva il segretario del Pci «rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e che rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.» Convinto che un governo delle sinistre sostenuto dal 51 per cento dei voti non avrebbe retto, Berlinguer rinunciava definitivamente alla prospettiva di un’«alternativa di sinistra» in favore di un’«alternativa democratica» che vedesse al governo, insieme, il Pci e il suo antagonista storico, la Dc.

 

«Rossi» e «neri», delitti e stragi

Il terrorismo arabo, che aveva fatto il suo debutto nel settembre 1972 alle Olimpiadi di Monaco massacrando 11 atleti israeliani, nel dicembre dell’anno successivo attaccò l’aeroporto di Fiumicino. Presi in ostaggio 6 poliziotti, i terroristi raggiunsero un aereo della Pan American che stava per decollare e lanciarono all’interno alcune bombe a mano che uccisero 28 passeggeri. Poche ore dopo entrai con le telecamere nella carlinga per una macabra cronaca diretta: là dove uomini d’affari e turisti spensierati stavano leggendo o ascoltando musica c’erano soltanto scheletri di poltrone carbonizzate. Una guardia di finanza e un tecnico aeroportuale, presi anch’essi in ostaggio, furono uccisi nel prosieguo dell’azione.

Sul fronte del terrorismo interno, la guerra tra i «rossi» e i «neri» fece altre vittime. Il 5 giugno 1972 un commando di Lotta continua e di Potere operaio incendiò un circolo romano di destra gremito di gente: 9 militanti missini rimasero ustionati, 3 in modo gravissimo. La replica, il 16 aprile 1973, fu più tragica: questa volta con liquido infiammabile fu messa a fuoco l’abitazione del segretario missino di Primavalle, Mario Mattei, netturbino e padre di sei figli. La moglie e i due figli più piccoli riuscirono a scappare, il padre tentò invano di spegnere le fiamme, poi cadde su un balcone del secondo piano (abitavano al terzo) e cercò di farvi calare anche due figlie. Una precipitò a terra e restò ferita in modo gravissimo. All’alba, quando arrivai sul posto, dal balcone pendeva il cadavere carbonizzato di uno dei figli di Mattei, Virgilio, ventidue anni. Più tardi venimmo a sapere che all’interno c’era il corpo bruciato del figlio più piccolo, Stefano, otto anni. Accanto alla porta d’ingresso dell’appartamento distrutto campeggiava una scritta: GIUSTIZIA PROLETARIA.

Nonostante la rivendicazione, all’inizio si pensò a un regolamento di conti interno alla destra. Solo più tardi furono incriminati per l’episodio tre esponenti di Potere operaio: Achille Lollo, Manlio Grillo, Marino Clavo. Gli ultimi due scapparono prima del processo, il primo tra una fase e l’altra. Lollo fu arrestato nel 1992 in Brasile, dove si era rifatto una vita e una famiglia, e poi rilasciato. (Alla fine del 2004 non è stata ancora ottenuta la sua estradizione.) Fra l’altro, la sentenza con cui Lollo e i suoi compagni furono condannati a diciotto anni fece discutere a lungo: la strage non venne considerata un atto volontario. Durante il processo, nel 1975, una spedizione punitiva di manifestanti dell’estrema sinistra contro la sezione del Msi di via Ottaviano, nel quartiere Prati a Roma, causò la morte dello studente greco Mikis Mantakas, ucciso da un colpo di pistola alla testa. (Nello stesso periodo, a Milano, attivisti di Avanguardia operaia ammazzarono a sprangate lo studente di destra Sergio Ramelli.) Trentun anni dopo, nel settembre 2004, il sindaco ds di Roma, Walter Veltroni, ha proposto – tra consensi e polemiche – di intitolare ai fratelli Mattei una strada della capitale.

Se i «rossi» uccidevano, i «neri» non restavano inattivi. Un oscuro episodio di terrorismo avvenne il 31 agosto 1972 a Peteano, in Friuli, dove tre carabinieri – richiamati insieme ad alcuni colleghi da una falsa segnalazione – morirono per l’esplosione di un’autobomba. Indagini e processi durati decenni misero in luce la complicità di apparati di sicurezza dello Stato con uomini dell’estrema destra. Furono condannati all’ergastolo due militanti di Ordine nuovo, Carlo Cicuttini e Vincenzo Vinciguerra. Il primo, rifugiatosi in Francia, venne consegnato subito alla magistratura italiana dalle stesse autorità che ora si rifiutano di consegnare terroristi di sinistra in analoghe condizioni processuali. Il secondo, che non si è mai pentito, è tuttora in carcere.

Se per tutti gli episodi stragisti di quegli anni si è chiamato in causa l’estremismo nero – arrivando, però, solo in pochissimi casi all’individuazione dei responsabili – è anche perché il 7 aprile 1973, sul treno Torino-Roma, una bomba esplose fra le mani dell’uomo che la stava piazzando in una toilette: il fascista Nico Azzi.

I «neri» controllavano ormai il centro di Milano e avevano fatto di piazza San Babila la loro roccaforte. Una settimana dopo la mancata strage sul treno, due giovanissimi estremisti di destra parteciparono a una manifestazione con altri camerati armati di bombe a mano fornite dallo stesso Azzi. Si chiamavano Maurizio Murelli e Vittorio Loi. Quest’ultimo, figlio del grande campione di pugilato Duilio, ammise di aver pensato di uccidere Mario Capanna e dichiarò successivamente di voler provocare «a ogni costo» incidenti con la polizia. Loi lanciò una bomba a mano e uccise l’agente Antonio Marino. La manifestazione era stata organizzata come cornice a un comizio di Ciccio Franco, il leader dei «Boia chi molla» di Reggio Calabria. Franco era missino, Loi e Murelli gravitavano intorno alla stessa area. I dirigenti del partito capirono subito qual era la matrice politica degli assassini di Marino.

Come scrivono Baldoni e Provvisionato, Franco Servello, uno dei capi del Msi milanese, avvertì Almirante, il quale ordinò immediatamente di denunciare i due, che furono arrestati e condannati. (A Milano, nella primavera del 1975 i «neri» avrebbero ucciso altri due «rossi»: Antonio Braggion ammazzò Claudio Varalli per difendersi, disse, da un’aggressione di gruppo e una squadraccia fascista accoltellò mortalmente Alberto Brasili.)

Nel 1973 Milano visse una primavera di sangue. Il 17 maggio il ministro dell’Interno Mariano Rumor era appena entrato nella sede della questura per ricordare il commissario Luigi Calabresi a un anno dall’assassinio. Davanti all’ingresso principale, in via Fatebenefratelli, un uomo lanciò una bomba contro i passanti e gli agenti di guardia. Morirono 4 persone e molte altre rimasero ferite. L’autore dell’attentato, Gianfranco Bertoli, si proclamò anarchico individualista, ma si scoprì che aveva ideali e frequentazioni di destra. Eppure, alla fine, tutti gli uomini di destra e gli esponenti dei servizi segreti indicati come complici di Bertoli sono stati assolti.

Dopo inchieste e processi durati decenni, nessun colpevole anche per due orribili stragi avvenute nel 1974. Il 28 maggio una bomba insanguinò piazza della Loggia, a Brescia, dove si stava svolgendo una manifestazione antifascista: 8 persone restarono uccise, mentre i feriti furono quasi cento. Il 4 agosto un’altra bomba scoppiò sul treno Italicus che collegava il Nord e il Sud Italia ed era gremito di gente che andava in ferie. Il bilancio fu tragico: 12 morti e una cinquantina di feriti. (L’esplosione avvenne nella galleria di San Benedetto Val di Sambro, tra Firenze e Bologna, la stessa dove dieci anni dopo, l’antivigilia di Natale, sarebbe scoppiata un’altra bomba sul rapido 904 Napoli-Milano.)

Quindici anni dopo questi episodi, nel 1989, il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, Libero Gualtieri (repubblicano), disse che dietro questi sanguinosi episodi c’erano «poteri istituzionali sufficientemente alti da permettersi di non ubbidire e sufficientemente forti da evitare ogni sanzione». In altre parole, fece sua l’ipotesi – sostenuta dall’estrema sinistra e anche da una frangia dell’estrema destra – delle «stragi di Stato». Gualtieri notava che nei vent’anni in cui si è sviluppato questo tipo di terrorismo – tra il 1960 e il 1980 – i ventitré governi che si sono alternati sono stati di fatto un gioco limitato a quattro democristiani: Fanfani, Rumor, Moro, Andreotti, con la partecipazione di Restivo e Taviani come ministri dell’Interno, e con le stesse persone al comando degli apparati di sicurezza dello Stato.

Domando ad Andreotti se abbia motivo di ritenere che i servizi segreti abbiano avuto collegamenti poco limpidi con l’estremismo nero. «Con i servizi in quanto tali lo escludo» risponde il senatore. «È possibile che questi contatti li abbiano avuti alcuni elementi dei servizi scettici sulla capacità dei nostri metodi democratici di resistere all’urto dei comunisti “ufficiali” e di tutti i movimenti che andavano formandosi alla loro sinistra. Si invocava l’esperienza tedesca, dove i comunisti erano stati messi fuori legge. Se non si era comunisti, dunque, bisognava essere tutti insieme anticomunisti. Ciò poteva portare qualcuno a una certa benevolenza verso i “neri”. Uomini come Amos Spiazzi [colonnello dell’esercito coinvolto nell’inchiesta giudiziaria sul movimento golpista veneto «Rosa dei venti»] erano elementi isolati, espressione di uno zoccolo duro che non si rassegnava alla nostra apertura al Pci. Viceversa, qualche contatto stabilito dai servizi per giungere alla cattura dell’estremista nero Stefano Delle Chiaie fu di un’ingenuità sconcertante. Pino Romualdi, presidente del Msi, mi disse che un giorno Delle Chiaie, ricercato in tutto il mondo, era andato a trovarlo nel suo ufficio romano.»

Anche Cossiga esclude che all’interno dei servizi si sia celata una componente stragista: «Il giudice Guido Salvini, che per ultimo si è occupato dell’istruttoria sulla strage di piazza Fontana, ha accertato che il gruppo neofascista di Delfo Zorzi, condannato e poi assolto per la strage, aveva avuto contatti con i servizi d’informazione militare del quartier generale americano in Germania. Salvini non solo esclude che il Sid abbia avuto qualsiasi partecipazione nella strage, ma, mettendosi in urto con i colleghi della Procura, inizia la sua sentenza di rinvio a giudizio di Zorzi ringraziando i servizi per la loro collaborazione».

 

Sequestro Sossi, la nuova stagione del terrorismo

Nel frattempo le Brigate rosse si erano strutturate come un piccolo esercito. Diciotto uomini furono impegnati il 18 aprile 1974 a Genova nel sequestro del magistrato Mario Sossi, che si era occupato delle prime azioni terroristiche con particolare impegno e rigore. Al sequestro, diretto da Franceschini, parteciparono anche Moretti – che voleva la morte dell’ostaggio –, Curcio e la Cagol. Qualche settimana dopo, il 10 maggio, alcuni brigatisti detenuti nel carcere di Alessandria avevano scatenato una rivolta prendendo numerosi ostaggi. Il generale Dalla Chiesa era intervenuto con la forza: due terroristi e cinque ostaggi erano rimasti uccisi. I sequestratori di Sossi capirono che la loro sorte (e, verosimilmente, quella del magistrato) era segnata, e alla fine, il 23 maggio, lo liberarono.

Per il rilascio di Sossi, trattenuto in un casale nei pressi di Tortona, in provincia di Alessandria, i brigatisti avevano chiesto la liberazione dal carcere di alcuni membri dell’organizzazione terroristica XXII Ottobre, attiva a Genova dall’inizio di quell’anno. Una mediazione del Vaticano – condotta dall’intellettuale cattolico Corrado Corghi, che abbiamo già incontrato – era fallita per due ragioni. Secondo Franceschini, Fidel Castro – che avrebbe dovuto accogliere i detenuti rilasciati – cambiò idea su pressione di Berlinguer (il segretario comunista gli avrebbe promesso 50 trattori Fiat). Inoltre, Francesco Coco, procuratore generale di Genova, si oppose al rilascio del gruppo. Per tale ragione, due anni dopo sarebbe stato assassinato dalle Br insieme a due uomini della scorta.

Coco fu il primo di una lunga serie di magistrati uccisi dai terroristi. Nel giro di sei anni furono ammazzati dalle Brigate rosse Riccardo Palma, responsabile dell’edilizia carceraria; Girolamo Tartaglione, direttore generale degli Affari penali; Girolamo Minervini, consigliere di Cassazione; Nicola Giacumbi, procuratore della Repubblica a Salerno. Prima linea uccise a Milano il sostituto procuratore Emilio Alessandrini e il giudice istruttore Guido Galli. Le Unità comuniste combattenti rivendicarono l’omicidio di Felice Calvosa, procuratore della Repubblica a Frosinone. I fascisti di Ordine nuovo ammazzarono a Roma Vittorio Occorsio, sostituto procuratore, mentre il suo collega Mario Amato, che ne aveva ereditato le inchieste sull’eversione nera, fu ucciso dai Nar (Nuclei armati rivoluzionari), una sanguinaria organizzazione neofascista.

Il sequestro Sossi ebbe enorme risonanza, sia per il fatto in sé sia perché avvenne durante la campagna per il referendum abrogativo della legge sul divorzio, promosso dalla Dc di Fanfani. Alcuni giornali di sinistra arrivarono al punto di scrivere che a rapire Sossi erano stati i soliti servizi segreti deviati allo scopo di influenzare la campagna referendaria.

Poco dopo il rilascio del magistrato genovese, l’8 settembre 1974, Curcio e Franceschini furono arrestati grazie alla segnalazione di un infiltrato, Silvano Girotto, detto «Frate mitra». La moglie di Curcio, Mara Cagol, fece evadere il marito dal carcere di Casale Monferrato il 18 febbraio 1975 con una spettacolare azione di commando. Il 4 giugno Mara e quattro compagni sequestrarono Vittorio Vallarino Gancia, notissimo industriale dello spumante, e lo portarono in una cascina sulle colline di Acqui Terme. L’indomani, mentre montava la guardia, Curcio si addormentò e la cascina venne circondata dai carabinieri. Mara cercò di aprire una via di fuga per sé e per il compagno lanciando una bomba a mano contro i militari, uccidendo un appuntato e ferendo gravemente un ufficiale, che perse un occhio e un braccio. I due brigatisti furono però intercettati da un altro carabiniere. Curcio riuscì a fuggire, mentre la moglie – secondo il racconto del leader brigatista – venne uccisa a freddo dopo essere stata fermata. Ma questa versione non ha mai avuto evidenza giudiziaria.

Il 17 giugno 1974 le Brigate rosse commisero il primo di una lunga serie di attentati mortali. Con un’esecuzione a freddo ammazzarono a Padova due militanti del Msi trovati nella sede del partito. L’arresto di Curcio, Franceschini e di altri dirigenti del primo nucleo brigatista sembrò tuttavia aver depotenziato le Br. Ma nel 1976 si fece viva un’altra temibile formazione terroristica, Prima linea, formatasi da una costola di Lotta continua e di Autonomia operaia. A Prima linea vanno attribuiti l’assassinio del procuratore Coco, del consigliere provinciale milanese del Msi Enrico Pedenovi e del sottufficiale dell’Arma Antonino Custrà. I Nap (Nuclei armati proletari), attivi a Roma, cercarono di uccidere il funzionario di polizia Alfonso Noce, che se la cavò con ferite gravissime; nel conflitto a fuoco, però, restarono uccisi l’agente Prisco Palombo e il terrorista Martino Zicchitella. Il brigatista Walter Alasia morì dopo aver ammazzato due poliziotti, il vicequestore Antonio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega. Il nome di Alasia sarebbe tornato frequentemente nelle cronache del terrorismo, poiché le redivive Brigate rosse avrebbero dato il suo nome a una delle loro micidiali «colonne».

Forse qualche lettore troverà eccessivamente dettagliata questa ricostruzione in un libro dedicato a sessant’anni di storia italiana. Se abbiamo ricordato molti nomi delle vittime di quella stagione (e se altri, purtroppo, dovranno essere ricordati) è perché i cosiddetti «anni di piombo» sono ignoti alle generazioni più giovani e si sono cancellati troppo presto dalla memoria dei meno giovani. Eppure si tratta di uno dei capitoli più dolorosi e rilevanti della storia dell’Italia moderna. Il terrorismo ha insidiato pesantemente la nostra democrazia, in qualche momento ci ha fatto sfiorare la guerra civile, e se alla fine hanno vinto le istituzioni, lo si deve soprattutto al sacrificio di tanti uomini ormai dimenticati e – occorre riconoscerlo – alla fermezza dei grandi partiti popolari.

 

1977: i giornalisti sotto il fuoco delle Br

Il punto più alto dell’«attacco al cuore dello Stato» – come i brigatisti chiamavano le azioni più clamorose – fu naturalmente il sequestro (e poi l’assassinio) di Aldo Moro e il massacro della sua scorta, avvenuti a Roma il 16 marzo 1978. Dopo l’arresto di Curcio e di Franceschini – che hanno scontato quasi trent’anni di carcere pur non avendo commesso delitti di sangue –, tuttavia, non sarebbe stato possibile alle Brigate rosse diventare la poderosa organizzazione militare che furono, se i «pesci rossi» non avessero trovato acque ospitalissime in cui nuotare, nutrirsi e riprodursi. Queste «acque» erano alcune università e, soprattutto, le grandi fabbriche del Nord, dove il terrorismo prosperava nell’anarchia gestionale e i terroristi – o presunti tali – non venivano denunciati nel timore di rappresaglie.

In questo senso il 1977 fu un anno cruciale. Alberto Ronchey annotò che in quei dodici mesi furono compiute 2128 azioni terroristiche – in media, sei al giorno – contro le 702 del 1975 e le 1198 del 1976. A Torino, dove si celebrava il processo Curcio, le Br ammazzarono il commissario di polizia Giuseppe Ciotta, freddato sotto gli occhi della moglie, e il presidente dell’Ordine degli avvocati Fulvio Croce, che per onorare la carica aveva accettato il ruolo di difensore d’ufficio dei brigatisti processati.

Poi toccò ai giornalisti. Il 1° giugno, a Genova, fu ferito leggermente Vittorio Bruno, vicedirettore del «Secolo XIX». L’indomani a Milano i terroristi spararono alle gambe a Indro Montanelli. Quattro anni prima il grande giornalista toscano era stato licenziato dal «Corriere della Sera», dove aveva trascorso l’intera, prestigiosissima carriera giornalistica. Le sue posizioni erano diventate inconciliabili con quelle del direttore Piero Ottone che, sostenuto dalla proprietaria Giulia Maria Crespi, aveva spostato il giornale su posizioni marcatamente di sinistra. Montanelli non sopportava che il capo del comitato di redazione, Raffaele Fiengo, contasse più di lui. Nacquero fortissime incomprensioni e il principe del giornalismo italiano fu messo alla porta.

Seguito da alcune delle firme più brillanti del giornale (Guido Piovene, Enzo Bettiza, Mario Cervi, oltre che da Gianni Granzotto e da molti altri), aveva fondato «il Giornale» e trovato un giovane e brillante costruttore edile, Silvio Berlusconi, che gli aveva garantito i soldi necessari a sostenerlo. Il rancore di Ottone nei confronti di Montanelli era tale che il clamoroso attentato al giornalista fu liquidato con un articolo il cui titolo non ne citava il nome: I giornalisti nuovo bersaglio della violenza. Le Brigate rosse rivendicano gli attentati. Gli autonomi, in piazza, gridavano felici: «Bruno qui / Montanelli lì. / La controinformazione / si fa così». Alla Rai eravamo certi che l’indomani sarebbe toccato a uno di noi: le Brigate rosse avrebbero voluto dimostrare una perfetta organizzazione territoriale (Roma, dopo Torino, Milano e Genova), e l’operazione mediatica non poteva risparmiare la televisione. Nessuno pensava tuttavia che la raffinatezza dei terroristi fosse tale da individuare l’uomo più schivo, meno conosciuto, ma certamente più autorevole del giornalismo televisivo italiano: Emilio Rossi, direttore del Tg1.

Rossi fu colpito mentre, dopo essere sceso dall’autobus, risaliva lentamente via Teulada. Stava leggendo Masse e potere di Pietro Ingrao (quando Giancarlo Pajetta, nemico storico di Ingrao, lo venne a sapere, disse a Rossi: «Così impara!») e fu massacrato: i medici contarono 22 fori di entrata e di uscita delle pallottole. Il mio direttore, che trovai su una barella coperta di sangue al Pronto soccorso del policlinico Gemelli, avrebbe portato per tutta la vita i segni di quell’agguato. Un brigatista pentito, Patrizio Peci, rivelò successivamente che Rossi era stato «condannato a morte» dalle Br, ma poi risparmiato perché era stato appena ucciso l’avvocato Croce.

Gli autonomi del movimento sembravano ormai controllare le piazze delle grandi città italiane. («Il 1977» commentò Curcio «ci è piovuto addosso come una slavina di giovani selvaggi.») Il loro leader era il «cattivo maestro» Toni Negri, un professore universitario di Padova, che dopo aver fondato Potere operaio era passato ad Autonomia operaia. (Dagli atti della III Conferenza organizzativa di Potere operaio, tenutasi a Roma, al palazzo dei Congressi dell’Eur, nei giorni 24-26 settembre 1971: «Muovere il movimento verso lo sbocco di potere significa dirigere l’intera articolazione del movimento delle masse verso la lotta armata». Si parlava pubblicamente di lotta armata come se si trattasse di parti cesarei in un congresso di ginecologia…)

Mi recai a Padova per un’inchiesta dopo il ferimento di Angelo Ventura, un docente universitario socialista che non si era piegato alla linea della violenza. Trovai la gente chiusa in se stessa e le istituzioni, anche quelle accademiche, avvilite e delegittimate. Negri fu arrestato il 7 aprile 1979 con altri «cattivi maestri», fra cui Oreste Scalzone e Franco Piperno. Condannato nel 1987 come ispiratore di una rapina compiuta da un gruppo di giovanissimi, in cui era stato ucciso il brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini, gli furono inflitte pene pesanti anche per associazione sovversiva e banda armata. L’inchiesta su Autonomia fu condotta dal magistrato Pietro Calogero sulla base di un «teorema» giudiziario (Autonomia operaia come punta scoperta dell’iceberg brigatista) che suscitò molte polemiche a sinistra: si ritenne che con gli arresti del 7 aprile fosse iniziato il contrattacco del Pci ai gruppi alla sua sinistra. Eletto deputato nelle liste del Partito radicale e poi riparato in Francia, Negri rientrò solo molti anni dopo in Italia per scontare l’ultima parte della sua pena.

Nel 1977 il partito di Berlinguer fu fatto oggetto di un attacco formidabile, violento e, soprattutto, imprevisto. All’università di Roma il leader della Cgil, Luciano Lama, fu costretto dalla durissima contestazione dei cosiddetti «indiani metropolitani» – una delle tante facce del movimento dell’Autonomia – a interrompere il suo discorso. A Bologna, città «rossa» per eccellenza, il sindaco comunista Renato Zangheri fu accusato dagli autonomi di aver addirittura ordinato alla polizia di attaccare i manifestanti: durante gli scontri venne ucciso il giovane militante di Lotta continua Francesco Lo Russo. In settembre la città venne occupata militarmente da Autonomia. Racconta Giorgio Bocca in Noi terroristi: «Arriva tutto a Bologna in quel settembre: gli autonomi con la P38 e gli osservatori delle Br, gli studenti delle scuole medie, che vogliono fare i grandi e giocare alla sovversione, e i loro parenti che prenotano le stanze negli alberghi del centro e usciranno la sera per andare a vedere i loro figli che danzano attorno ai falò e dormono sotto i portici nei sacchi a pelo». Negozi e ristoranti attuarono una serrata. Unico locale aperto, la «Rosteria da Luciano», il cui titolare portava al collo una catena con il ritratto del Duce e veniva coccolato da Nanni Balestrini e dagli altri capi dell’Autonomia. Seduto al tavolo accanto a quello di Balestrini, assistetti interdetto a una romantica trattativa sul tipo di Lambrusco che l’oste fascista avrebbe servito ai capi della rivoluzione marxista-leninista.

«In quegli anni» mi dice Giuliano Amato «le connivenze con il terrorismo erano percepibili nella vita di ogni giorno. Insegnavo alla Sapienza di Roma, facoltà di scienze politiche, e avevo sostituito Vittorio Bachelet quando diventò vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura [in quella facoltà Bachelet fu ucciso nel 1980 dalle Brigate rosse]. Alcuni dei nostri studenti occupavano in permanenza un’aula dove c’erano scritte che li collocavano nell’area dell’estremismo ideologico. La definizione dei terroristi come “compagni che sbagliano” non era una dottrina. Era la realtà.»

L’autunno fu cupo. A fine novembre, dopo due settimane di agonia, morì a Torino il vicedirettore della «Stampa» Carlo Casalegno, uno dei cervelli più lucidi del giornalismo italiano, che non aveva mai piegato la testa dinanzi al terrorismo. Ogni sabato pomeriggio Roma o Milano venivano messe a ferro e fuoco. Trascorsi una di quelle serate nello studio dell’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Ne uscii più preoccupato di quando vi ero entrato. Tutto era pronto per l’assalto finale.

 

«Corri, hanno rapito Moro…»

La mattina del 16 marzo 1978, verso le 9.30, quando il caporedattore di turno, Dante Alimenti, mi chiamò a casa dicendomi di correre al telegiornale perché era stato rapito Aldo Moro, rimasi paralizzato dall’incredulità. Nessuno aveva mai ipotizzato che le Brigate rosse potessero arrivare a tanto. Avremmo saputo più tardi che Moro era uno dei tre obiettivi dei terroristi, e si disse che gli altri due – Andreotti e Fanfani – erano stati scartati in quanto meno abitudinari del presidente della Dc e, in ogni caso, perché il sequestro Moro era più agevole sul piano «militare». Questa tesi viene respinta da Moretti, il responsabile della gestione politica del sequestro, che disse a Carla Mosca e Rossana Rossanda: «Volevamo attaccare la Dc, e Moro era il suo presidente». Franco Bonisoli, secondo Moretti, aveva scoperto per caso che Moro ogni mattina andava a messa nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici, a Vigna Clara. Scartata l’ipotesi del sequestro in chiesa (a quell’ora troppa gente e troppi bambini frequentano la piazza), si ripiegò su via Fani.

Eppure, racconta Franceschini a Giovanni Fasanella, «sequestrare Andreotti era facilissimo, non aveva la scorta. Io lo avevo pedinato e addirittura, nella chiesa sul lungotevere, dove andava tutte le mattine alle 7, gli avevo toccato una spalla. Moro invece era scortato». Preso atto della ricostruzione, il senatore commenta: «Per mia fortuna Franceschini fu arrestato a Milano. In quanto alla voce che quello che era possibile in via Fani non era possibile al Ponte Vittorio [vicino alla casa di Andreotti], l’ho letta più volte sui giornali. La verità è che nella Dc Moro aveva un’importanza politica e un peso che io non avevo».

Rispetto agli altri due autorevolissimi esponenti democristiani, comunque, Moro mi sembrava più intangibile a causa di una sorta di presunta sacralità fisica. Mentre sulla mia Cinquecento correvo verso via Teulada, ascoltando alla radio la primissima cronaca del sequestro fatta da Franco Bucarelli, ripensai a quanto era accaduto esattamente due anni prima al congresso della Dc.

 

La riforma della Rai e i fischi in diretta

Il 15 marzo 1976 era entrata in vigore la grande riforma della Rai: il primo canale era stato assegnato all’area di influenza democristiana e il secondo a quella socialista, anche se il primo direttore del Tg2, Andrea Barbato, spostò subito la linea del notiziario su posizioni vicine a quelle del Pci, partito per il quale simpatizzavano anche il vicedirettore Giuseppe Fiori e il bravo e pittoresco notista politico Emanuele Rocco. Il Pci ebbe un proprio canale d’influenza diretta, il terzo, soltanto nel 1987, grazie all’accordo tra l’allora direttore generale della Rai, Biagio Agnes, e Walter Veltroni, responsabile dei problemi dell’informazione a Botteghe Oscure, ma nel decennio precedente non fece certo mancare la sua influenza sugli altri due canali.

Sotto il profilo professionale, la seconda metà degli anni Settanta fu una delle stagioni migliori per la Rai. Sul piano degli ascolti, dell’equilibrio e dell’autorevolezza, il Tg1 diretto da Emilio Rossi sbaragliò subito e contro ogni previsione il Tg2. Il distacco in termini di audience fu tale che, quando ne parlai a Giovanni Agnelli, l’Avvocato mi disse: «State attenti a non stroncare la concorrenza altrimenti vi capiterà quel che è accaduto a me con la Lancia: alla fine ho dovuto comprarla». Il primo shock alla paludata informazione del telegiornale «preriforma» si verificò in occasione del congresso socialdemocratico: il segretario Mario Tanassi fu fischiato (ne vedremo le ragioni nel prossimo capitolo). Chi scrive, incaricato del servizio, mandò in onda i fischi e dovette poi barricarsi in una stanza perché i fedelissimi del segretario, gridando al golpe, volevano fare giustizia sommaria. Pochi giorni dopo, al congresso democristiano, mandai in onda i fischi rivolti a Rumor. Per le ragioni di prudenza esposte in precedenza, era la prima volta che mi veniva affidato un servizio sulla Dc. Trasmettere i fischi non fu un atto di particolare coraggio, erano solo cambiati i tempi. Fu così che Italo Moretti (per il Tg2) e chi scrive (per il Tg1), con l’entusiasmo determinato dalla nuova stagione, assalirono letteralmente i dirigenti democristiani con domande aggressive e talvolta un po’ grossolane, alle quali gli uomini politici non erano affatto abituati.

Lo spettacolo dovette essere così sconvolgente per il mondo politico che, quando fu la volta del congresso del Pci, Tonino Tatò – segretario di Berlinguer e potentissimo capo ufficio stampa del partito – chiuse i giornalisti in un recinto invalicabile. Chiedevi di intervistare Pajetta? Arrivava Bufalini. Volevi Ingrao? Arrivava Napolitano. Soltanto Giorgio Amendola, dall’alto della sua immensa autorità, se ne infischiava di Tatò. Un giorno il segretario di Berlinguer mi vide uscire dalle Botteghe Oscure con un gran corredo di telecamere senza che lui ne sapesse niente. «Dove sei stato?» mi domandò impallidendo. «Da Amendola.»

All’inizio degli anni Settanta mi era toccato di fare il primo collegamento televisivo in diretta nella storia del Partito comunista. La porta del salone dov’era riunito il comitato centrale era chiusa, naturalmente, e Tatò vigilava sull’uscio come Cerbero sulla porta dell’Ade. Mi fecero trovare lì vicino un tavolo con una risma di fogli, una matita e una gomma per cancellare. Chiesi una macchina per scrivere, che mi fu portata immediatamente. Quando si trattò di sapere cosa stava succedendo dietro la porta, tra me e Tatò si aprì una trattativa degna di un suq. «Quante righe devi scrivere su Pajetta?» mi chiedeva. «Quattro» rispondevo. «Te le porto io» faceva Tatò premuroso. «No, grazie. Dammi il testo dell’intervento» replicavo. Impossibile. Alla fine arrivarono una dozzina di righe, dalle quali potei scegliere le quattro necessarie. E così per gli altri leader.

Torniamo al congresso della Dc di quel marzo 1976. Moro aveva pronunciato un bellissimo discorso. Come vedremo nel prossimo capitolo, erano scoppiate polemiche su un grave caso di corruzione per la fornitura a diversi paesi, tra cui l’Italia, di aerei Hercules C130 della ditta americana Lockheed. Nel richiamare la necessità della moralità pubblica, Moro fu il primo a usare l’espressione «mani pulite»: se non si provvederà a moralizzare la vita pubblica, disse, il prezzo non lo pagheranno soltanto uomini e partiti, ma le stesse libere istituzioni.

Quando mi capitò a tiro di microfono il presidente della Dc, immobile come un bonzo d’avorio sul suo scranno presidenziale, gli domandai come pensasse di ricucire la lacerazione che si era creata nel partito tra la candidatura alla segreteria di Arnaldo Forlani e quella di Benigno Zaccagnini, che alla fine sarebbe prevalsa: «Presidente, lei è il più grande mediatore di questo partito. Pensa di poter trovare un accordo?». Moro era abituato alle domande «morotee» di Nuccio Fava, che lo amava, riamato: domande in cui la lingua italiana scorreva in modo imperscrutabile da una sponda all’altra del tavolo da biliardo, tra «convergenze parallele» ed «equilibri più avanzati», guardandosi bene dal finire in buca. Così come in buca non finivano mai, apparentemente, le risposte di Moro, o meglio finivano in una buca nascosta agli occhi dell’opinione pubblica e visibile soltanto agli eletti. Dinanzi alla franchezza un po’ volgare della mia domanda, Moro non si mosse di un millimetro e, lanciando lo sguardo nel vuoto, rispose: «Io non sono un mediatore. Io rappresento posizioni politiche». Mi colpì e mi affondò. Toccarlo, stringergli la mano, per molti di noi era impensabile.

 

Andreotti: «Tememmo un’insurrezione…»

Mentre abbandonavo la mia vecchia Cinquecento da qualche parte in via Teulada e correvo in studio, il pensiero che curiosamente continuava a ossessionarmi era come i brigatisti avessero osato violare il corpo di Moro. Purtroppo, l’ultima parte della brevissima telefonata di Alimenti aveva fornito un altro tragico riscontro a quello che sembrava soltanto un incubo. Quando seppi che i brigatisti avevano ucciso quattro uomini della scorta (all’inizio sembrava che il quinto fosse sopravvissuto), volli sapere: «Anche Leonardi?». «Sì» fu la risposta. Il maresciallo dell’Arma Oreste Leonardi era il capo della scorta di Moro da molti anni, e Alimenti, seguendo in altri tempi il presidente della Dc, era diventato suo amico.

Leonardi, che viaggiava con Moro, era stato ucciso insieme all’autista Domenico Ricci. Le vittime sull’Alfetta erano i vicebrigadieri di polizia Raffaele Jozzino e Francesco Zizzi, e la guardia Giulio Rivera. Il numero degli uomini di scorta sarebbe stato sufficiente se le auto fossero state blindate e se avessero tenuto le armi a portata di mano. Moretti sostiene che la blindatura del veicolo non avrebbe fermato i brigatisti: «Un’auto blindata non è un carro armato». Al processo la moglie di Moro, Eleonora, disse che fin dal 1977 il marito aveva fatto richiesta di un’auto blindata, che gli era stata negata per mancanza di fondi.

L’agguato era stato predisposto con straordinaria precisione. Alcuni brigatisti in divisa da pilota civile si erano nascosti dietro le siepi di un bar chiuso da tempo, all’angolo tra via Stresa e via Mario Fani, nel quartiere residenziale della Camilluccia, a Roma nord. Allo stesso incrocio lavorava un fioraio che teneva la merce su un furgone. La notte precedente furono bucate le ruote dell’automezzo per evitare uno scomodo testimone o un’ulteriore vittima. Arrivata in via Fani, la vettura di Moro fu tamponata da una delle due auto rubate dai brigatisti, mentre i finti piloti, sbucati dalla siepe, ammazzavano gli uomini della scorta. Secondo Moretti – e secondo i magistrati che hanno emesso le sentenze sul caso Moro –, a sparare furono soltanto in quattro: Prospero Gallinari, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e Franco Bonisoli. Il presidente della Dc fu materialmente prelevato da Moretti.

L’Italia rimase sconvolta dalla notizia. Con poche interruzioni per i telegiornali, rimasi in studio dalle nove e mezzo del mattino alle due di notte. Soltanto dopo qualche ora parlai per la prima volta con il mio direttore, Emilio Rossi, che si trascinava a fatica con le stampelle dopo l’attentato subìto. Non concordammo mai la linea da tenere: la «fermezza» nacque dalle immagini di quei cinque corpi straziati sull’asfalto, mostrati subito in un memorabile servizio di Paolo Frajese.

«Le modalità dell’operazione militare» mi dice Andreotti «davano l’idea che ci trovavamo dinanzi a un’organizzazione poderosa. Tememmo che fosse l’inizio di una manovra insurrezionale articolata nelle diverse piazze italiane.» Le piazze d’Italia si riempirono invece di cittadini sconvolti ma determinati, di lavoratori che avevano lasciato uffici e fabbriche prima che i sindacati proclamassero lo sciopero generale. Alla Camera, dove Moro si stava dirigendo per il voto di fiducia al governo monocolore presieduto da Andreotti e appoggiato dal Pci, Ugo La Malfa e Giorgio Almirante chiesero la pena di morte per i terroristi. Prendemmo subito le distanze da tali misure, spiegandole con l’altissima tensione causata dalla strage e dal sequestro. Si disse in seguito che la televisione, mostrando un paese compatto, lo aiutò in quelle ore a mantenere la calma, scongiurando il pericolo di derive autoritarie. (Lo stesso stile fu mantenuto in occasione di tutti gli altri drammatici avvenimenti del 1978, e nel suo almanacco dell’anno successivo il Pci riconobbe che «in questi casi straordinari la Rai ha dimostrato di poter realmente funzionare da servizio pubblico al di là degli interessi di bottega degli “editori di riferimento”».)

Il sequestro Moro durò 55 giorni: il periodo più angoscioso e drammatico del sessantennio che viene raccontato in questo libro. Pochi minuti dopo la strage di via Fani Roma fu messa in stato d’assedio. Si cercò invano la «prigione» perquisendo migliaia di appartamenti. La polizia bussò anche a tutte le porte di un condominio di via Gradoli, sulla Cassia. Non rispose nessuno, e gli agenti se ne andarono. Il 18 aprile, un mese dopo il sequestro, un’inquilina dello stabile segnalò un’infiltrazione d’acqua proveniente da un appartamento vicino. I vigili del fuoco scoprirono così del tutto casualmente un covo delle Brigate rosse ancora «caldo», appena abbandonato – si seppe poi – dai brigatisti Barbara Balzerani e Mario Moretti, che l’aveva affittato a nome di un fantomatico ingegnere genovese, Mario Borghi. «Non ho mai capito se quel covo fu scoperto o fu fatto scoprire dai brigatisti» mi disse Cossiga. Moretti ha sempre affermato che l’allagamento dell’appartamento fu un incidente, ma i vigili del fuoco sostennero subito che era stato provocato: il getto della doccia veniva indirizzato verso una fessura della parete dalla pressione esercitata dal manico di uno spazzolone.

Secondo Moretti, Moro fu tenuto sotto sequestro dal primo all’ultimo giorno in un altro covo, in via Montalcini, che i brigatisti avevano comprato l’anno precedente con una parte del riscatto (1 miliardo di lire) pagato per la liberazione dell’armatore Piero Costa. Tale ipotesi è stata giudicata inverosimile dal fratello di Moro, il magistrato Alfredo Carlo. La descrizione che i brigatisti hanno fatto del covo (qualche metro quadrato) e delle condizioni di sostanziale immobilità in cui Moro sarebbe rimasto per circa due mesi, lavandosi soltanto in un bacile, avrebbe dovuto avere riscontri oggettivi sulla muscolatura e sulle condizioni igieniche del cadavere, risultate invece normali. Di qui il sospetto, mai provato in sede giudiziaria, che Moro sia stato detenuto in condizioni relativamente confortevoli forse nel centro di Roma, nei pressi di via Caetani, dove il 9 maggio sarebbe stato trasportato il suo corpo.

Il nome «Gradoli» era saltato fuori durante una seduta spiritica organizzata a Bologna, a cui aveva partecipato anche Romano Prodi. «Quel nome era venuto fuori per caso» mi disse allora Cossiga «o non c’era piuttosto qualcuno depositario di confidenze che si era inventato la seduta spiritica per trasmettercele senza correre rischi?» Mi confida oggi l’ex capo dello Stato: «In realtà, la fonte era uno studente dell’Autonomia. L’equivoco [fra Gradoli paese e via Gradoli] nacque nel passaggio della notizia da una fonte all’altra.

«Prodi» aggiunge Andreotti «venne nella sede della Dc in piazza del Gesù e fece il nome Gradoli a Giovanni Galloni, allora vicesegretario del partito. Fu messa immediatamente in stato d’assedio la cittadina del viterbese.» Perché nessuno pensò a una via Gradoli a Roma? «Perché ci fu detto espressamente che si trattava di Gradoli paese, con tanto di cartine e chilometraggi.»

 

Pisanu: «La fermezza? Non potevamo applicare la Convenzione di Ginevra»

Lo stesso giorno in cui veniva scoperto (o fatto scoprire) il covo di via Gradoli, le Brigate rosse annunciavano in un volantino che Moro era morto «mediante suicidio» e che il suo cadavere giaceva sul fondo del lago della Duchessa, ai piedi del monte Velino, al confine tra il Lazio e l’Abruzzo. Il lago era ghiacciato, e una gigantesca operazione compiuta dai sommozzatori della polizia non approdò a nulla. Si seppe poi che il comunicato era stato scritto da Tony Chichiarelli, un falsario legato ai servizi segreti. L’uomo sarebbe stato coinvolto in una serie di episodi misteriosi: il 4 aprile 1979 guidava il taxi nel quale due studenti americani trovarono un borsello con alcuni reperti collegati al delitto Moro. Fu ucciso nel 1984 sotto casa, in circostanze mai chiarite.

L’idea di un depistaggio era dell’allora sostituto procuratore della Repubblica Claudio Vitalone, poi senatore democristiano, messo sotto processo, ma assolto, per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. All’ex parlamentare del Pci Sergio Flamigni, membro della commissione d’inchiesta sul caso Moro, Vitalone disse di aver suggerito a Cossiga una «contromossa» per spiazzare i brigatisti, ma di aver constatato, il giorno del lago della Duchessa, che la sua proposta era stata applicata tardi e male (Sergio Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro).

«Appresi sommariamente la storia di questo falsario» mi dice Andreotti «quando si accertò che il falso comunicato mirava a fornire agli emissari del Vaticano la prova che un loro interlocutore milanese [come vedremo tra poco] fosse davvero espressione delle Brigate rosse che detenevano Moro.» Andreotti esclude di aver saputo dell’iniziativa di Vitalone e aggiunge che «fu subito fuori dubbio che la storia del lago della Duchessa fosse un falso».

Diverso il parere di Cossiga, che all’epoca era ministro dell’Interno. Quindici anni dopo la morte di Moro mi disse di essere convinto che il comunicato del lago della Duchessa fosse autentico, e me lo ripete oggi. «Convocai nel mio studio i consulenti della Procura, della polizia e dei carabinieri, e tutti mi dissero che le Br avevano scritto quel documento per generare confusione. Ancora oggi sono convinto che abbiano fatto le prove generali per fiaccare la Democrazia cristiana. Il comunicato del lago della Duchessa, infatti, mise in fibrillazione la Dc, e fu allora che Fanfani, fino a quel momento contrario alla trattativa, alla prima riunione riservata dei maggiorenti del mio partito alla Camilluccia si dichiarò favorevole. In realtà, a mio giudizio diventò favorevole per colpire Andreotti, che era contrario.»

Ai volantini di rivendicazione fatti rinvenire dai brigatisti si aggiunsero presto le lettere dello statista: lettere inviate alla famiglia, ma soprattutto ai massimi dirigenti della Dc, verso i quali Moro manifestava sentimenti sempre meno amichevoli, via via che il sequestro si prolungava. All’inizio, quasi tutto il mondo politico e gli stessi amici del presidente della Dc non vi riconobbero né lo stile né l’animo del prigioniero. Ma si sbagliavano: era Moro a scrivere, seppure ridotto nelle condizioni fisiche e psicologiche più drammatiche in cui un uomo possa farlo. In ogni caso, le lettere non furono dettate dai rapitori. «Tutto in quelle lettere apparteneva a mio marito» ha dichiarato la moglie Eleonora al processo. «Il contenuto, il pensiero, il modo di parlare e di esprimersi, la sua logica. Un’autenticità assoluta.»

Montanelli prese atto della precisazione e commentò che, fatte salve le drammatiche circostanze in cui si muoveva il prigioniero, «quelle furono lettere d’un uomo terrorizzato, non d’uno statista consapevole delle sue responsabilità e pensoso di qualcosa che andasse al di là della sua individuale salvezza». La realtà è che al presidente della Dc, abituato alle defatiganti trattative della politica interna e internazionale, sembrava incredibile che non si trovasse il modo di salvarlo. «Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno vividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del paese?» scriveva al segretario del partito, il suo amico personale Benigno Zaccagnini, nell’ultimo messaggio rivolto all’intera Dc. «Se questo crimine fosse perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti … Se la pietà prevale, il paese non è finito.»

«A me il caso Moro ha procurato la depressione» mi dice Cossiga «ma la gente non sa che la persona più irremovibile fu proprio Zaccagnini, che vi si procurò un infarto. Perché? I comunisti dissero che la durezza di questo atteggiamento si spiegava con il fatto che Zaccagnini era stato partigiano. In realtà, lui ascoltava molto i suoi più stretti collaboratori, detti “la banda dei quattro” (Beppe Pisanu, Guido Bodrato, Corrado Belci e Franco Salvi). E avvertiva in particolare l’influenza di Pisanu e di Bodrato.»

«Fu Zaccagnini in persona» mi dice Pisanu «a dettare il primo comunicato ufficiale della Democrazia cristiana dopo il sequestro di Aldo Moro, nel quale si affermava che il partito non avrebbe lasciato “nulla di intentato” per salvare la vita del suo presidente. Lo ricordo bene, perché toccò a me stendere materialmente quella nota. Posso anche testimoniare che Zaccagnini non cambiò mai atteggiamento nelle settimane che seguirono.»

Come nacque allora la «linea della fermezza»? «Prese progressivamente consistenza quando ci si rese conto che le Brigate rosse ponevano condizioni tali da comportare, se le avessimo accettate, conseguenze gravissime e, in sostanza, irreparabili. Una delle più pesanti era, infatti, che fosse loro riconosciuto lo status di esercito combattente. Ciò avrebbe determinato una fondamentale conseguenza giuridica: l’applicazione ai brigatisti detenuti della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Ma, soprattutto, due disastrose conseguenze politiche: la legittimazione delle Br, specialmente agli occhi di tutti i simpatizzanti o potenziali aderenti (che a quel tempo erano molti) e, in definitiva, la resa dello Stato. Come è facile capire, fu una scelta inevitabile e lacerante, che segnò profondamente Zaccagnini per il resto della sua vita. Nei momenti più difficili del sequestro noi lo sostenemmo convinti, anche se con grande sofferenza. Lo stesso avvenne nel partito, a eccezione di pochissimi casi. È certo, comunque, che Zaccagnini decise in piena autonomia, come del resto faceva sempre sulle questioni importanti, nonostante una mediocre letteratura politica tenti di descriverlo come un debole o un irresoluto. In realtà, era davvero un uomo mite ma, al tempo stesso, generoso e forte. Lo sa bene chi, come me, ha avuto la fortuna di frequentarlo a lungo e, purtroppo, di condividere con lui quei terribili cinquantacinque giorni.»

 

«Se cedete, mi brucio come un bonzo»

Che cosa si fece davvero per salvare la vita di Moro? Perché prevalse il «partito della fermezza», che vide uniti, ancora una volta, il Pci di Berlinguer e la Dc di Andreotti? «La fermezza nacque spontaneamente per due ragioni» mi dice il senatore. «Una, politica, riguardava il Pci. Un motivo della propaganda delle Brigate rosse era l’attacco ai comunisti, considerati traditori: avevano votato contro i governi dal 1947 al 1976, poi avevano accettato di astenersi sul monocolore democristiano guidato da me e condiviso la nostra linea di adesione alla politica atlantica ed europeistica. Si trattava quindi di difendere questa linea di “comunismo evolutivo”. La seconda ragione è che in quegli anni un intero mondo si sentiva sotto tiro. Le Brigate rosse avevano colpito magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti. Dopo la strage di via Fani ci sarebbe stata una sollevazione, se avessimo ceduto al ricatto brigatista. Una vedova degli uomini della scorta di Moro telefonò a palazzo Chigi: se cedete, ci disse, vengo a bruciarmi come un bonzo in piazza Colonna. Non si trattava di difendere il prestigio dello Stato in senso astratto e forse retorico, quanto di far fronte ai nostri doveri per assicurare la funzionalità delle istituzioni.»

Eppure, i socialisti insistettero per trovare una soluzione. «Pertini» ricorda Andreotti «era contrarissimo a qualsiasi trattativa. Quando alla Camera citai una frase del Vangelo (“Dobbiamo aver paura di chi fa male all’anima piuttosto che al corpo”), lui venne al banco della presidenza a complimentarsi. Craxi mi disse invece fin dall’inizio che dovevamo cercare una strada per trattare. Claudio Signorile si illuse di poter fare qualcosa attraverso Franco Piperno e Lanfranco Pace, due ex militanti di Potere operaio. Ma il riconoscimento politico delle Brigate rosse non è mai stato in questione.»

Il 28 aprile le Br chiesero la liberazione di 13 terroristi: una condizione evidentemente inaccettabile. Si immaginò poi (ma il tempo ormai stringeva) uno scambio uno contro uno, e si fece il nome di Paola Besuschio. «Il presidente della Repubblica Leone» mi dice Andreotti «fece sapere di avere la penna in mano, pronto a firmare la grazia. Ma non era possibile, perché la Besuschio doveva essere processata per un altro reato con mandato di cattura obbligatorio. Se in questa vicenda non fosse scorso troppo sangue, una soluzione si sarebbe potuta trovare. [Si parlò anche della grazia ad Alberto Buonoconto, un terrorista dei Nap gravemente malato.] Ma l’obiettivo dei terroristi era quello di diventare il vero partito della sinistra dopo la svolta del Pci.»

Andreotti rivela che «nel timore che i sequestratori avessero avuto collegamenti internazionali, ci rivolgemmo a tutti coloro che potevano esserci utili. Mandai in Iugoslavia da Tito il negoziatore del trattato di Osimo, Eugenio Carbone. Contattammo Gheddafi, che si mise a disposizione scrivendo una lettera alla signora Moro. Mi fu riferita una sua frase: servono soldi per il riscatto? Anche la Santa Sede si mosse per il riscatto in assoluta concordia con noi. L’idea che 10 miliardi [27 milioni di euro al cambio 2004] finissero nelle mani dei terroristi ci disturbava. Ma il tentativo fu fatto: il pagamento di un riscatto non rientrava in una trattativa di carattere politico». Ricorda anche che la somma fu raccolta dall’Istituto per le opere di religione. «Non andò in porto anche per ragioni di tempo. La segreteria di Paolo VI attivò il cappellano capo delle carceri, monsignor Curioni, che individuò a San Vittore un detenuto che si sarebbe prestato a fare da tramite, sotto il vincolo del segreto confessionale. C’era il dubbio, tuttavia, che in una situazione così eccezionale il segreto confessionale non avrebbe retto. Ci si domandava se il prelato, sotto la pressione della polizia e della magistratura, avrebbe potuto non rispondere. In ogni caso era tardi. Il giorno previsto per il versamento del riscatto era il 9 maggio, quando Moro venne ucciso.» Era credibile il misterioso personaggio? «Anni dopo chiesi se quest’uomo fosse attendibile. Mi risposero che lo avevano messo alla prova. Lui disse che all’indomani del colloquio [18 aprile] sarebbe uscito un comunicato apparentemente molto grave, ma da non prendere sul serio. Era il comunicato sul lago della Duchessa. E se l’avesse scritto lui, visto che le Br ne hanno sempre negato la paternità?»

 

E il papa scrisse: «Senza condizioni»

A proposito di possibili collegamenti internazionali, Andreotti ricorda il turbamento di Berlinguer: «Con grande prudenza mi fece qualche accenno al timore che potesse esserci lo zampino dei sovietici nell’attività delle Brigate rosse e, in particolare, nel caso Moro. D’altra parte, lui stesso si sentiva sotto tiro per le sue dichiarazioni contro il Pcus come partito guida. Lo aveva molto impressionato l’incidente di cui era stato vittima in Bulgaria: era scortato da auto che non lasciavano passare nessuno, quando improvvisamente sbucò un camion che mandò fuori strada la sua auto. Rifiutò di farsi vedere in ospedale e rientrò immediatamente a Roma. La mia fonte, sia pure con la ben nota prudenza, era Tonino Tatò».

Non ebbe esito nemmeno il disperato appello di Paolo VI, scritto la notte del 21 aprile. Il mattino dopo, a poche ore da uno dei tanti ultimatum fissati dalle Br, il Vaticano ne fece recapitare una copia alla Rai, identica a quella che ventisei anni dopo l’attuale ministro dell’Interno Beppe Pisanu, amico e collaboratore di Moro, ha appeso dietro la sua scrivania al Viminale, per non dimenticare la lotta al terrorismo. Provammo un’emozione grandissima a scorrere quel drammatico manoscritto con la calligrafia minuta e quasi timida di Paolo VI. «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco e non ho modo di avere alcun contatto con voi…» La lettera si concludeva con una frase, a proposito del rilascio «senza condizioni», che sbarrava definitivamente la strada alle concessioni attese dai brigatisti.

«Amici e famigliari di Moro» mi dice Andreotti «sostengono che l’espressione “senza condizioni” sarebbe stata suggerita da me al papa. È una cosa assolutamente inverosimile, e il segretario di Paolo VI, monsignor Macchi, ne è buon testimone.» Nel suo libriccino di memorie sulla vicenda (Paolo VI e la tragedia di Moro) Macchi ricorda che il papa ricevette il 20 aprile una lettera con la quale il presidente della Dc lo sollecitava a patrocinare «un’equa soluzione del problema dello scambio dei prigionieri e la mia restituzione alla famiglia». L’indomani Paolo VI spedì monsignor Agostino Casaroli da Andreotti per chiedere «quali passi potrebbe ancora compiere il governo italiano per scongiurare l’imminente tragedia» (stava per scadere l’ultimatum delle Br). La notte stessa il papa scrisse la sua lettera agli «uomini delle Brigate rosse» e soltanto il 25 aprile ricevette un messaggio di Andreotti. «Desidero sottolineare» scrive Macchi «che la lettera del presidente Andreotti è datata 25 aprile e arriva al papa quattro giorni dopo la sua alle Brigate rosse.» Il presidente del Consiglio giudicava «non praticabile» lo scambio dei «prigionieri» e apprezzava l’invito del papa a restituire l’ostaggio «senza condizioni».

«La lettera del papa fu per noi una mazzata» disse poi Mario Moretti a Giorgio Bocca. E lo fu anche per il presidente della Dc. Eppure, se avessero rilasciato Moro dopo l’appello del papa, le Br avrebbero avuto un eccezionale riscontro d’immagine, acquisendo oggettivamente lo status di «interlocutore» istituzionale. Scelsero un’altra strada. Il 30 aprile Moretti fece un ultimo tentativo telefonando di persona alla famiglia Moro e invocando per l’ultima volta un segnale da parte della Dc. Contemporaneamente veniva recapitata ai famigliari una delle lettere più dure e disperate del presidente democristiano. Moro invocava lo «scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre». Attaccava i suoi più cari amici di partito e di governo: «E Zaccagnini? Come può rimanere al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro». Infine, il tenerissimo abbraccio ai famigliari.

Il 9 maggio si riunì la direzione democristiana per un’ultima valutazione della vicenda. «Se non avessi interrotto io la riunione annunciando che Moro era stato ucciso» mi raccontò Cossiga quindici anni dopo e mi ripete oggi «la direzione avrebbe certamente deciso la convocazione del consiglio nazionale. E il consiglio nazionale avrebbe certamente modificato la linea seguita fino a quel momento rivendicando una propria autonomia rispetto al governo. Io immaginavo una cosa del genere, tanto è vero che al mattino andai in piazza del Gesù con la lettera di dimissioni in tasca. Ero democristiano, e se la Dc avesse deciso di cambiare linea, si sarebbe dovuto cambiare il ministro dell’Interno.»

Questa era anche la versione di Fanfani, l’ultimo dirigente democristiano che mantenne i rapporti con la famiglia Moro: «È vero» mi disse. «Avevo avanzato io la proposta di convocare il consiglio nazionale. La tenuta dello Stato sarebbe stata compromessa da una trattativa? È la tesi di quanti non la volevano. La verità è che la morte di Moro non ha portato vantaggi a nessuno. Non vi fu attenta considerazione dei vantaggi che la convivenza politica italiana avrebbe potuto conseguire se Moro fosse stato liberato.» Secondo Fanfani, i contrasti tra democristiani e socialisti si sarebbero appianati e i comunisti si sarebbero accodati.

 

«Le Br a un passo dalla vittoria…»

Diverso, su questo punto, il parere di Cossiga. «“Non avete capito che avevate vinto?” dissi ai brigatisti che incontrai negli anni successivi. Ma tra loro non c’era nessuno in grado di gestire politicamente una cosa così grossa. Fra l’altro, non avevano capito che il danno maggiore ce l’avrebbero procurato se avessero sequestrato Andreotti. Saremmo rimasti senza governo. In ogni caso, se avessero liberato Moro, il rapporto tra Dc e Pci si sarebbe destabilizzato. Non dimentichiamo che le ultime lettere di Moro sono una violenta accusa ai due partiti. Rimproverava alla Dc di aver scambiato l’accordo politico con il Pci per una consonanza ideologica e di aver rinunciato al suo patrimonio umanista e cristiano per far forte l’intransigenza dogmatica e leninista del Pci.»

 «Loro» mi ripete oggi il presidente emerito della Repubblica «avrebbero dovuto condannare Moro e graziarlo dopo l’appello del papa. Il ritorno di Moro vivo avrebbe dato un colpo mortale sia alla Dc sia al Pci. Lui avrebbe capeggiato una crociata anticomunista. Il Pci l’aveva capito perfettamente. Dopo che io ebbi ricevuto la prima lettera di Moro dalla prigione delle Br, Ugo Pecchioli venne a trovarmi e mi disse: “Che torni vivo o morto, per noi Moro è politicamente morto”. Io avevo dei dubbi sull’autenticità della lettera. E non ero il solo. Pietro Scoppola e Clemente Riva, vescovo ausiliario di Roma, erano dello stesso avviso. Quando nelle ultime lettere Moro invocò la liberazione chiedendo il ricongiungimento alla famiglia e al nipotino Luca, sono andato a rileggermi le sue opere precedenti e allora ho capito che Moro era un leader di partito, non un uomo di Stato. La Dc ha avuto due soli statisti, De Gasperi e Andreotti. Lo sarebbero stati anche Ugo La Malfa e Togliatti. Moro no.»

Anche per chi scrive il rilascio di Moro avrebbe segnato la vittoria politica delle Br per l’effetto destabilizzante che avrebbe avuto la testimonianza del presidente democristiano sulla vita politica italiana. Per quanto si è venuto a sapere nel corso di cinque processi, Moro non rivelò niente di decisivo nei lunghi interrogatori a cui lo sottopose Moretti: la parte più interessante per i brigatisti era l’illustrazione dell’apparato di Gladio. Niente di inconfessabile, come si vede. Moretti, per contro, insiste nel subordinare la vittoria delle Br al cedimento del fronte della fermezza. «A breve, subito, si cessava di sparare…» ha detto a Carla Mosca e Rossana Rossanda. «Avremmo liberato Moro e si sarebbero spostati gli equilibri politici: chi, Pci o altri, avesse preso atto della nostra esistenza, avrebbe tentato un nostro recupero, un rientro, avrebbe fatto politica e rafforzato la sua contrattualità … Anche noi saremmo stati costretti a fare politica. Persino nostro malgrado. Saremmo rimasti una forza rivoluzionaria ma sarebbe cominciata un’altra storia.»

Secondo Andreotti, «in tutte le riunioni che abbiamo tenuto, Fanfani non ha mai proposto un cedimento. Non gli ho mai sentito suggerire la liberazione di due brigatisti da scambiare con Moro. È possibile che nei suoi colloqui con la moglie di Moro abbia potuto dire qualcosa per tenere viva la speranza. Ma escludo una sua dissociazione dalla nostra linea. Il 9 maggio, quando fu posto il problema della convocazione di un consiglio nazionale sollecitata da alcuni, Fanfani non disse una parola. In ogni caso, la maggioranza per convocarlo non c’era assolutamente».

Valerio Morucci e Adriana Faranda erano perplessi sull’opportunità dell’esecuzione di Moro. «Ma in quel momento» secondo Moretti «fare un’altra scelta voleva dire chiudere con le Br.» «Morucci e la Faranda» mi dice Cossiga «avevano contatti con i socialisti attraverso Lanfranco Pace e Franco Piperno. I socialisti ce lo tacquero, perché le trattative avrebbero fatto saltare l’alleanza Dc-Pci. Se ce lo avessero detto, in ogni caso, io mi sarei adoperato per far fallire le trattative. Tuttora sono convinto che non si poteva scendere a patti con le Brigate rosse. Volevano dare scacco matto al Pci e farsi riconoscere politicamente dalla Dc. Pensi che cosa sarebbe accaduto con i parenti delle vittime del terrorismo…»

Fu così che la mattina del 9 maggio 1978 a Moro venne chiesto di abbandonare la tuta che gli era stata prestata durante il sequestro, di indossare il doppiopetto scuro che portava il 16 marzo e di accucciarsi nel bagagliaio di una Renault rossa. Fu ucciso con nove colpi di mitraglietta. Le sentenze dicono che a sparare fu Prospero Gallinari, mentre Moretti sostiene di essere stato lui a eseguire la condanna a morte. Poco dopo Franco Tritto, assistente di Moro all’università, fu avvertito per telefono di un’auto parcheggiata in via Caetani, tra la sede della Dc in piazza del Gesù e quella del Pci in via delle Botteghe Oscure. «Chi parla?» domandò lui angosciato. «Brigate rosse.»

I cinque processi Moro hanno dimostrato che non ci fu complotto internazionale e che la Cia non ebbe alcun ruolo nella vicenda. Ma è incredibile che dopo quasi ventisette anni l’unica certezza sia quella di non conoscere neppure i nomi di tutti gli uomini che parteciparono all’attentato.

Cossiga conferma che restano ancora molti i punti oscuri del sequestro Moro: «I brigatisti hanno parlato di cose che già si conoscevano o che immaginavano sarebbero venute fuori. Non sappiamo quanti fossero con esattezza gli uomini del commando di via Fani, certamente non sappiamo chi sono i brigatisti che hanno partecipato all’attentato in motocicletta. Prospero Gallinari ha confessato di essere stato lui a uccidere Moro, invece sappiamo che si mise a tremare e non ebbe il coraggio di ucciderlo. Spararono Moretti o Maccari. Quando, su richiesta della famiglia, feci visita in carcere a Gallinari, che era in precarie condizioni di salute e per questo poi uscì, lui mi disse: “Avete sbagliato tutto, nelle fabbriche sapevano benissimo chi fossimo e dove fossimo”. L’unica pentita per ragioni morali che ho conosciuto è stata Adriana Faranda. Quando riconobbe un maresciallo che mi accompagnava e che aveva partecipato al suo arresto, gli disse: “Se lei mi avesse catturato prima…”. E a me: “Lei è troppo benevolo nei nostri confronti. Noi siamo degli assassini”».

La Faranda e Valerio Morucci si nascondevano dalla fine del 1978 nel quartiere Prati di Roma, nella casa di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio, una delle spie più importanti del Kgb a Roma, come avrebbe rivelato vent’anni dopo la pubblicazione dell’archivio Mitrokhin. Giuliana era vicina agli ambienti romani dell’estrema sinistra, dopo un’esperienza in America latina in cui era entrata in contatto con i movimenti rivoluzionari. Disse di aver creduto che i suoi ospiti fossero semplici militanti di Autonomia operaia con qualche problema con la giustizia. Altri testimoni assicurano invece che lei conoscesse perfettamente l’identità e il ruolo di Morucci e della Faranda. I due vennero arrestati il 29 maggio 1979.

Nel suo libro dedicato al caso Conforto (Professione spia) Francesco Grignetti parla di un mistero insoluto riguardo a come la polizia sia arrivata all’appartamento di viale Giulio Cesare. Cossiga crede invece di sapere come andarono le cose: «Fu Giorgio Conforto a denunciare la coppia al questore di Roma, Ferdinando Masone, nel timore che le indagini facessero ricadere qualche responsabilità sul Pci e su Mosca. In realtà, i brigatisti ebbero contatti con tre soli servizi segreti. Quello palestinese, perché la guerriglia araba li riforniva di armi. Quando sequestrarono Moro, tuttavia, Arafat ci offrì il suo aiuto, ma non ci fu il tempo per operare. Il Mossad israeliano prese contatto con le Br al solo scopo di sapere chi fossero davvero. E i cecoslovacchi li addestrarono nei loro campi. Perciò Giorgio Amendola intervenne presso l’ambasciatore sovietico a Roma, invitandolo a dire al suo collega di Praga di smetterla. Pecchioli venne a informarmi: “Sono dei pazzi” si sfogò. E Pajetta, durante i lunghi anni della lotta al terrorismo, una volta mi disse: “Voi democristiani siete dei bei fessi. Lasciate continuare questo massacro dei vostri, e adesso che avete dei brigatisti in carcere perché non gli date una strizzatina?”».

Pajetta stava soltanto suggerendo interrogatori stringenti, ma torna alla memoria la morte dei componenti della banda tedesca Baader-Meinhof. «Sa come si disse che era finita quella storia?» dice Cossiga. «Quando i terroristi furono arrestati, la polizia tedesca li lasciò in cella con delle pistole. “Fate voi” gli dissero. E quelli si uccisero. Ma era altra gente, tutta di estrazione medio o altoborghese.»

Perché lo Stato italiano ha liberato i brigatisti senza nemmeno sapere la verità su Moro? «È vero» risponde Cossiga. «A Rebibbia non c’è più nessuno di loro. Ma la legge dello Stato sui benefici a pentiti e dissociati è stata fatta per uscire definitivamente dalla stagione della lotta armata.»

Conclude laconico Andreotti: «Siamo il paese dei bastoni e delle carote…».

Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi
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